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Interview with Riccardo Lenzi / L'Espresso, 14th June 2007:
Zubin tra le valchirie
Ondine. Welsunghi. Dei ed eroi. Reinventati dalla Fura dels Baus. Nei due capolavori di Wagner portati al Maggio fiorentino dal grande direttore indiano
colloquio con Zubin Mehta
di Riccardo Lenzi
Forse non esiste un interprete wagneriano più dissimile caratterialmente dal suo autore. Il settantunenne direttore Zubin Mehta, pur essendo un autorevole esecutore del tedesco, come dimostrerà immancabilmente dal 14 giugno affrontando in successione "Das Rheingold" e "Die Walküre" al Maggio musicale, è un personaggio tanto solare quanto pare fosse ombroso il secondo; amante della battuta sanguigna, irrispettosa e fuori dagli schemi e per niente permaloso quanto si dice fosse l'altro; molto più a suo agio con gli adoranti fans della città toscana che con qualche critico "armato di fiero cipiglio", croce e delizia dell'autore del "Parsifal", come si può verificare anche leggendo la sua recente autobiografia, "La partitura della mia vita" (edizioni Excelsior). Il suo far musica è gioviale, comunicativo, addirittura cameratesco, quasi gigioneggiasse sull'aura sacrale che solitamente avvolge il "Maestro". Come il suo affabulare, pur di argomenti tragici, tanto che all'interlocutore par di scorgere tra le frasi proferite con parlantina schioppettante uno sguardo ironico di tacita intesa, quasi volesse suggerire: «suvvia, bischero, davvero vorresti rappresentare tutta la mia vita in quattro parolette?». Un'ottima assimilazione dell'indole tipica fiorentina, per un parsi indiano, che dà luogo a un felice sincretismo: un bronzo del dio Siva che accenna un passo di minuetto con il David di Donatello. Maestro, La Fura dels Baus, team animato da Carlus Padrissa, ha curato le due messe in scena wagneriane. Ne è rimasto soddisfatto? «Un allestimento pieno di fantasia, ma allo stesso tempo molto rispettoso delle istruzioni di Wagner stesso. Gli dei orbitano sospesi in aria, in anelli di luce illuminati da Peter Van Paret, scorrazzando per il mondo rappresentato da immagini naturalistiche. Secondo Padrissa il Walhalla, ovvero la sede degli dei, è una versione della "statua del pensatore" di Rodin, ricreata in high definition. E Loge è una specie di semidio, una fiamma con la testa di lampadina che volteggia in segway. Gli uomini sono divisi in due razze: da un lato i figli dei lupi, i welsunghi, stirpe alla qualche appartengono Siegmund e Sieglinde, rappresentanti dell'homo sapiens; dall'altra parte c'è Hunding, ovvero l'Uomo di Neanderthal. Erda è cieca ma ha molti occhi aperti, dipinti perché sente e vede tutto, come fosse energia pura. Le tre Ondine, le figlie del Reno, si muovono davvero nell'acqua portando nel ventre l'oro, in forma d'uova». Parliamo della musica del "Ring". Da ragazzo, negli anni Cinquanta, lasciata Bombay, iniziò a studiare a Vienna con Swarowsky. Allora andava di moda il Wagner misticheggiante e apocalittico di Furtwängler e di Knappertsbusch? «Swarowsky rompeva con quella tradizione: prediligeva piuttosto il Wagner di Toscanini, con le sue letture lucide, scarne che hanno ripulìto le partiture di tanti arcaismi sedimentati nel tempo. Ha restituito a queste pagine le originarie illuminazioni di Rembrandt e Rubens, che ispirarono l'autore». Un po' come fece Clemens Krauss? «Era un amico d'antica data di Swarowsky. A quel tempo era però più apprezzato come interprete di Richard Strauss. Ricordo che si prese ingiustamente il merito del libretto dell'opera "Capriccio" del compositore bavarese, mentre in realtà era stato Swarowsky a svolgere gran parte di quel lavoro. Ma quest'ultimo era ebreo, e perciò gli tolsero ogni merito». Meglio il Wagner di Boulez o quello di Karajan? «Adoro quello del salisburghese, come quello di Böhm. Sono cresciuto secondo la tradizione viennese: un Wagner liricizzato, di sostanza». Il precursore di Karajan fu Clemens Krauss? «Sì, forse. Fra ex nazisti si intedevano a meraviglia e si influenzavano reciprocamente». A proposito della fortuna di Wagner e dei suoi plagiatori: a lei sarà venuta in mente qualche affinità di trama quando al cinema ha visto "Il Signore degli anelli", tratto dall'opera di Tolkien? «In effetti riflettevo fra me e me, assistendo al film con i nipotini, quanto questa storia dell'anello che dà il potere assoluto a chi lo possiede mi fosse ben nota...». Lei è stato tanti anni a Los Angeles, a capo della Filarmonica, in un'epoca in cui furoreggiavano le "Guerre stellari" di Lucas. Anche lì le similitudini si sprecano? «A incominciare dalla spada laser, edizione riveduta e corretta della "eternamente vittoriosa" Notung di Siegmund. Ricordo che all'Hollywood Bowl, per la presentazione di "Star Wars", feci un concerto dinanzi a migliaia di bambini dirigendo "Also sprach Zarathustra" di Strauss e la colonna sonora di John Williams con una bacchetta laser che illuminava fin il tetto dello stadio. Ah, gli americani! Addirittura in seguito formarono una "Star Wars Orchestra" che tenne concerti in tutto il paese. Ci tengo a precisare però che il famoso tema del film, che ritorna come il Leitmotiv wagneriano ad accompagnare le situazioni e i personaggi ricorrenti, non è preso a prestito dal tedesco, ma dalla "Manon Lescaut" di Puccini!». Ne "Il giudaismo nella musica" Wagner manifestò il proprio razzismo... «Ancora niente rispetto agli estremismi raggiunti negli anni successivi. Se legge i diari della moglie di Wagner, Cosima, la figlia di Liszt, si viene a sapere che, quando bruciò a Vienna un teatro e nel rogo perirono 600 persone fra le quali 400 ebrei, Richard commentò: "Se vuoi ammazzare i topi, è meglio bruciarli"». Ma quando dirige Wagner e s'immedesima nell'autore, non prova disagio? «Una cosa è lo spartito, un'altra il suo creatore, sono due cose distinte. In "Rheingold" e in "Walküre" c'è, fra tutti i personaggi, una terribile lotta per ottenere il potere. I protagonisti sono praticamente tutti mascalzoni, Dei compresi. L'amore s'intravede soltanto fra Siegmund e Sieglinde, oppure fra Wotan e la figlia. E allora, nelle pagine che descrivono questo sentimento, il cuore di Wagner pare spandersi. È in quest'istante che egli invita l'ascoltatore ad assorbire il testo e ad aprire il proprio subconscio». L'Orchestra del Maggio ha un suono wagneriano? «Sarò onesto: no, va costruito. A parte Vienna, Berlino e Monaco che lo hanno nel dna, è compito di noi direttori saperlo ricreare, sia che ci troviamo a Pietroburgo, a New York o a Londra». Dicono che il suo Wagner sia memore dell'opera italiana, per quanto riguarda i chiaroscuri melodrammatici dei protagonisti, il gusto del cantabile, l'espressione: è vero? «Se un cantante wagneriano ha ben assimilato il belcanto, può acquistare molto in lirismo. I tedeschi tradizionalmente spingerebbero troppo coi fiati facendo inevitabilmente "ballare" la voce negli acuti». C'è una crisi delle voci wagneriane? «Riguarda sempre e solamente la parte di Siegfried. Una voce d'eccellenza in tale ruolo si trova ogni dieci-quindici anni». Le affinità tra Schopenhauer e Wagner, con quel sentire la musica come essenza della realtà. Le ritrova nel "Ring"? «Più che nella Tetralogia sono avvertibili nel "Tristano". Quest'opera si compendia con il sentimento dell'inutilità di questa vita, con la considerazione che ci rimane solo la morte, per raggiungere la felicità. Il "Ring" è un'altra cosa. È molto più vitale, si avverte chiaramente che appartiene al periodo rivoluzionario di Wagner, difatti fu già progettato intorno agli anni delle barricate del 1848. Pensi che in Germania circola un piccolo libretto sulla Tetralogia dove si calcola che nell'opera le leggi infrante dall'autore, stando ai codici odierni, sarebbero circa trecento, a iniziare da quelle riguardanti il divieto d'incesto, ovviamente». Lei è direttore a vita dell'Israel Philharmonic: cosa pensa delle polemiche sull'esecuzione della musica wagneriana in Israele? «È tuttora un tasto assai dolente. La maggioranza degli israeliani è pronta ad ascoltare le opere del tedesco. Ma finché ci saranno in vita, fra gli spettatori e i musicisti, coloro che sono sopravvissuti con i numeri dei campi di sterminio impressi sul braccio, costretti ad ascoltare quelle musiche in momenti così terribili, l'assimilazione completa non sarà possibile». Esiste una lettura definitiva, veritiera dello spartito? «A livello metodologico, pratico, cerchiamo sempre di raggiungerla. Concettualmente però non saprei darne una ricetta assoluta, che valga per ogni opera e ogni tempo. Faccio un esempio: l'interpretazione definitiva della "Tosca" è quella di Victor de Sabata, che difficilmente, per una serie di circostanze storiche e culturali, verrà eguagliata. Ma poi, cosa ne abbiamo concluso?» Quando lei esegue Wagner "diventa" Wagner? E quando suona Beethoven, si trasforma in lui? O in entrambi i casi rimane Mehta? «Mai Zubin Mehta! Di fronte allo spartito scompaio, come individuo. È nostro precipuo compito d'interpreti essere esperti dello stile e della scrittura del compositore». Esiste un "tempo giusto" nell'esecuzione? «Le cito due casi: l'approccio di Toscanini era dimostrativo. Se sulla partitura il crescendo iniziava in una determinata misura, doveva cominciare proprio lì, e non mezza misura prima o dopo. Furtwängler invece magari iniziava mezza misura prima, con notevoli variazioni fra un concerto e l'altro, ma ciò che faceva risultava logico e lasciava più spazio ai singoli strumentisti. Se aveva per esempio un oboista che necessitava di un certo tempo per eseguire bene un passaggio, gli concedeva questa libertà, a patto che risultasse musicalmente valido: così il fraseggio acquistava in profondità. Due metodi per due grandi direttori». Il suo impegno civile è notorio, fin dai tempi dei movimenti contro la guerra in Vietnam negli States. In che senso i musicisti possono essere engagé? «Innanzitutto con il loro esempio, in quanto uomini, persone, portatori di proprie opinioni che possono esprimere facendo o non facendo musica e per scopi espliciti. Quando in Grecia c'era il regime dei colonnelli per nove anni ho rifiutato di dirigervi. Più recentemente, nel 1971, ho rinunciato anche a un tour della Filarmonica d'Israele in Sudafrica, ai tempi dell'apartheid, quando ho saputo che in sala indiani, bianchi e neri avrebbero avuto dei settori circoscritti, dove sarebbero stati costretti a rimanere per tutta la durata del concerto. Allora agli ebrei sudafricani, che avevano invitato l'orchestra, ricordai: proprio voi, con quello che avete patito in Germania, accettate questa situazione? Non suono, se il pubblico non è mescolato! E non accettai». Esiste la musica impegnata politicamente, sui temi del progresso e della civiltà? «Non c'è alcun dubbio. Pensi a esempio alla Settima Sinfonia di Sciostakovic, alla sua funzione altamente morale, al suo invito alla resistenza, durante l'assedio di Leningrado da parte dei nazisti. E pensi anche al messaggio antiaustriaco contenuto in alcune opere di Verdi». Il governo Berlusconi aveva tagliato anche al Maggio i finanziamenti statali. Cosa si aspetta dal centrosinistra? «Intanto, per il settantesimo anniversario del Festival, abbiamo ottenuto un contributo speciale di due milioni che spero rappresenti un segnale: sostanzialmente, sulla questione, destra e sinistra purtroppo non si sono finora differenziate molto. L'arte e la musica sono il vostro fiore all'occhiello nel mondo, perché non le valorizzate di più?».
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